Imprese

Comunicazione pubblica, lo sbocco delle nuove professioni digitali

di Sergio Talamo

Ma come lavora chi lavora sui social? La questione è sempre più rilevante, considerato il ruolo ormai ampio e a volte persino consolidato che l’uso dei social media ha assunto nella nuova comunicazione pubblica. Il terreno di azione è pressoché illimitato, considerando il senso di marcia di una legislazione che, dalla riforma Brunetta in poi (2009), passando per la riforma Madia (2015), per finire con la ‘concretezza’ della legge 56/2019 varata dall’attuale ministro Giulia Bongiorno, impone un costante rapporto con il cittadino. Basti pensare al settore della trasparenza totale (Dlgs 97/2016, irrobustito dalle circolari 2/2017 e 2/2019), che prevede un dialogo con il richiedente di particolare intensità e qualità, senza il quale i risultati modesti dei primi due anni di ‘Foia italiano’ saranno confermati anche nei prossimi. Oppure la Carta della cittadinanza digitale, promessa dall’articolo 1 della riforma Madia. O la scommessa su esperti in digitalizzazione e qualità dei servizi pubblici, che fanno parte delle figure del turn over al 100 per 100 perseguito dal ministro Bongiorno.

La comunicazione ‘social’ della Pa
Parliamo dei cardini di quel ‘governo aperto’ su cui il governo italiano alimenta un ricco cantiere di iniziative (il IV piano Open Government Partnership è stato appena approvato). In tale cornice, l’uso dei social media si sta rivelando sempre più strategico. Lo confermano anche alcune cifre. Già nell’indagine presentata al ForumPA 2018, si evidenziava che praticamente tutte le città e le regioni italiane erano su una o più piattaforme social. Anche se non sempre si dimostravano capaci di sfruttarne a pieno le potenzialità in termini di interazione con l’utente. Nella ricerca 2019 dell’Osservatorio sulla comunicazione digitale (istituito da associazione PAsocial-Piepoli), emergono tendenze ancora più eloquenti: riguardo al consumo mediale, internet ha pressoché raggiunto la televisione, e ben 8 cittadini su 10 chiedono di essere informati sulle attività della PA anche via social. Non è superfluo dire che da questi mezzi, gli italiani si attendono una qualità dell’informazione che non sempre al momento le amministrazioni garantiscono: velocità, immediatezza, interazione, facile accesso ai servizi on line.
Di fronte ad un quadro così dinamico, il riconoscimento legislativo-formale della comunicazione social è ancora poverissimo. Ci si limita ad un passaggio della circolare 2/2017 sull’applicazione del Foia, in cui, a proposito di pubblicazione ‘proattiva’ (cioè mirante ad anticipare la domanda del cittadino), si afferma che le Pa devono ricorrere ai social. Questo il brano, al tempo promosso dall’associazione PAsocial: «Le pubbliche amministrazioni sono invitate a valorizzare il dialogo con le comunità di utenti dei social media (Facebook, Twitter, ecc.). I richiedenti spesso rendono pubbliche su questi mezzi di comunicazione le domande di accesso generalizzato da essi presentate. In questi casi, e comunque quando si tratti di informazioni di interesse generale, è opportuno che anche le amministrazioni utilizzino i medesimi canali a fini di comunicazione». A questo si aggiungono alcuni riferimenti impliciti nelle Linee guida Agid sui siti e i servizi on line (es. ‘il servizio è realizzato e diffuso attraverso gli strumenti e i canali effettivamente utilizzati dai cittadini’, oppure ‘occorre progettare servizi pensando che verranno fruiti mediante dispositivi mobili’), e soprattutto i nuovi profili ‘comunicazione e informazione’ introdotti dai Ccnl del pubblico impiego – funzioni centrali, funzioni locali, istruzione e salute –, siglati fra fine 2017 e inizio 2018. In questi profili si parla esplicitamente di uso dei social media da parte del Giornalista pubblico e dello Specialista in comunicazione pubblica, sebbene in una forma ancora indefinita e imprecisa.

Le questioni aperte
Restano tuttavia inevase questioni cruciali, segnalate da chi opera quotidianamente su una frontiera della comunicazione così inedita e impegnativa. Quando le social media policy lo prevedono, è ad esempio impossibile delimitare giornate ed orari della produzione di notizie o della risposta al cittadino.
Due casi fra i tantissimi che si possono citare: la social media manager del Comune di Perugia, durante gli episodi sismici che hanno interessato l’Umbria, ha fornito notizie di pubblica utilità fino a notte; il Smm del Comune di Viareggio, durante il Carnevale, gestisce un flusso di interazioni così massiccio da non prevedere che minime pause.
Come si recupera, e come si remunera, un tempo lavorativo talmente dilatato da coincidere con una costante reperibilità? Certo non sono soluzioni né i canali social ‘a una via’, cioè chiusi agli utenti (meglio non fare, che fare male) o l’uso indifferenziato di ‘bot’, risposte automatizzate che non possono fronteggiare domande sempre più specifiche e individuali.
Altra questione: il rapporto con il back office.  Il presidio di quel ‘front office permanente’ che è un social interattivo, esige un collegamento organico e trasparente con le uniche reali fonti di informazioni e soluzioni, cioè gli uffici interni. Altrimenti l’unica via resta il ‘volontariato istituzionale’, ben sintetizzato dal seguente passaggio previsto dalla Social Media Policy del servizio di trasporto pubblico di Roma, l’Atac: «Le pagine e gli account sui social network non sono canali ufficiali per raccogliere segnalazioni e/o reclami. Per tali finalità restano a disposizione i canali di customer care già attivi (sito internet, numero telefonico). Tuttavia la redazione web raccoglierà le segnalazioni dei clienti coerenti con la policy per tentare di restituire un feedback positivo coinvolgendo i servizi».
E ancora: in quale struttura vanno incardinati i giornalisti social, e con che qualifica? Quanto ancora si dovrà assistere ad una comunicazione di ultima generazione gestita da esterni o da figure con altre qualifiche che operano quasi ‘clandestinamente’, magari sotto l’apparente copertura di un Sindaco o Governatore ‘gestore della pagina social’?
Come si può notare, la comunicazione dell’era della trasparenza totale e dei social opera in una ‘terra di nessuno’, nella quale non ci si deve stupire se poi si verificano incidenti come quello della pagina Facebook di Inps sul reddito di cittadinanza. E a poco serve trincerarsi nel rassicurante mantra ‘applichiamo la 150/2000’. Quella legge, all’epoca un importante traguardo che diede cittadinanza alla comunicazione pubblica, e fece anche da riferimento alla formazione universitaria, era di fatto incentrata sulla separazione in casa fra giornalisti e comunicatori e su ridottissimi obiettivi produttivi: in pratica, comunicati stampa e sportelli al pubblico. I riferimenti ad altre attività, come ad esempio la customer satisfaction, rimasero per lo più a livello di auspicio. Nel 2000, peraltro, il web era appena agli inizi e le prospettive stesse del dialogo con il cittadino avevano precisi limiti: un esempio fra i tanti, la legge sulla trasparenza in vigore era la sola 241/1990, che vietava esplicitamente di usare l’accesso agli atti per finalità di controllo sulle attività della Pa. Davvero un’altra epoca.

Conclusioni
Si avverte oggi l’urgenza di definire regole condivise, una sorta di Social media policy-guida, calibrata sulla qualità del servizio e sulle esigenze di chi vi lavora. Più in generale, occorre un forte intervento legislativo - dagli addetti ai lavori ribattezzato ‘legge 151’ - che fra le altre cose dovrebbe identificare e riconoscere le nuove professioni, da finalizzare non più tanto sull’informazione o la risposta, ma sul servizio e la soddisfazione del cittadino.
Interessante, in questo senso, il modello di ufficio unificato, ‘Comunicazione, stampa e servizi al cittadino’, proposto da PAsocial.
In esso vi sono due profili distinti, Giornalista pubblico e Specialista in comunicazione pubblica, e 5 desk:
a) redazione delle notizie, trattamento delle informazioni e rapporti con i media (giornalista);
b) contatti con il pubblico e gestione dell’accesso civico nei nuovi uffici relazioni per la trasparenza;
c) analisi di citizen satisfaction in riferimento alle Carte dei servizi e consultazioni pubbliche;
d) campagne di comunicazione e organizzazione di eventi;
e) comunicazione interna (comunicatore pubblico).
In questa nuova articolazione professionale, l’uso dei social dovrebbe essere diffuso in tutti i cinque settori, ma presidiato dal Social Media Manager, che preferibilmente dovrebbe essere un giornalista. Va da sé che l’intero processo sarebbe favorito e accelerato dalla riforma dell’Inpgi, ente di previdenza che oggi è dei soli giornalisti ma che dovrebbe diventare la ‘casa’ anche dei comunicatori.
Intanto, il treno si muove anche attraverso le singole iniziative degli Enti locali, che mettono a bando posti per le nuove figure professionali, o comunque istituiscono uffici che tengono conto dei nuovi tempi. Si succedono esperienze interessanti di ricerca di professioni ispirate ai Ccnl 2017-2018, sia pure ereditando le imprecisioni in esse contenute.
A Bari, con la collaborazione anche di Associazione della Stampa e Ordine Puglia, sono stati pubblicati due avvisi per reperire figure professionali necessarie a strutture sanitarie del capoluogo pugliese e di Foggia. Nonostante il richiamo alla definizione ‘addetto stampa’, superata da tempo anche a livello semantico, si parla espressamente di ‘specialisti nei rapporti con i media da inquadrare come giornalista pubblico (categoria D), settore informazione’. Analoghi percorsi si segnalano in altre aree del Paese, da Torino all’Abruzzo, e ciò dimostra che per fortuna, i contratti e le prassi amministrative spingono in avanti una svolta legislativa senza cui le riforme digitali sono destinate a rimanere ... sulla carta.

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