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Hotspot e centri di rimpatrio, il garante dei detenuti fotografa tutta la complessità gestionale

di Mimma Amoroso

Il Garante delle persone private della libertà personale, istituito con il Dl n. 146/2013, ha avviato, sin dal 2016, una ricognizione sulle condizioni di vita all'interno dei centri di identificazione ed espulsione e degli hotspot italiani. I primi hanno nel frattempo cambiato denominazione in Centri per il rimpatrio per effetto del Dl n. 13/2017 (convertito dalla legge n. 46/2017) ma, come giustamente evidenziato dal Garante, non essendo cambiata la natura giuridica del centro e facendo riferimento a centri già funzionanti, il rapporto del Garante reca la precedente denominazione.
Alla luce delle visite effettuate tra giugno 2016 e aprile 2017, il Garante formula raccomandazioni generali su questioni o criticità di carattere trasversale e raccomandazioni specifiche rispetto a ciascuna struttura oggetto di visita (gli unici quattro funzionanti: Torino, Brindisi, Roma e Caltanissetta). Nell'analizzare il corposo rapporto ci soffermeremo sulle osservazioni generali proponendo qualche considerazione critica.

I centri per il rimpatrio
Partiamo dai Cie/Cpr, ovvero le strutture destinate al trattenimento di persone destinatarie di espulsione per consentirne l'identificazione e l'organizzazione del rimpatrio e che hanno subìto nel tempo molte rivisitazioni da parte del legislatore, soprattutto per quel che concerne il tempo massimo di trattenimento che nel 2014 è stato ridotto da 18 a massimo 3 mesi. Si tratta, dunque, di luoghi ove la libertà di circolazione è impedita, nei quali però – come anche espressamente stabilito dal decreto Minniti n. 13/2017 – occorre assicurare il rispetto dei diritti umani.
In tal senso proprio il ministero dell'Interno, in tempi non sospetti, ha approvato nell'ottobre 2014 un regolamento unico dei Cie, con l'intento di uniformare le regolazioni della vita all'interno dei Centri e di sancire il rispetto dei diritti fondamentali (trasfusi in una Carta da consegnare a ogni straniero che fa ingresso in queste strutture), fatto salvo quello alla libertà di circolazione.
Il Garante, avendo presente anche il contenuto di tale regolamento, ha espresso raccomandazioni che vanno dall'esecuzione di interventi strutturali per accrescere gli standard di vivibilità nei centri (disporre la manutenzione ordinaria e straordinaria delle strutture), al rigoroso rispetto delle disposizioni regolamentari connesse ai servizi resi da parte dei gestori delle strutture (assicurare attività ricreative, alla corretta informazione).
Il rapporto, per quanto assolutamente redatto nell'ambito delle prerogative del Garante, se letto dall'esterno dà la sensazione che le violazioni dei diritti siano gravi ma occorre anche considerare le difficoltà in cui l'amministrazione si deve muovere.
Ad esempio, rispetto all'esigenza di interventi di manutenzione strutturale, spesso, all'indomani del ripristino di condizioni di piena dignità degli alloggi, gli stessi stranieri fanno di tutto per danneggiare nuovamente gli spazi a loro disposizione. Non a caso i numeri di posti nei Cie/Cpr sono estremamente ridotti proprio perché o sono in corso lavori di ripristino delle strutture (come a Torino e Roma) o perché i danni sono talmente gravi da imporre la chiusura del centro (come a Isola Capo Rizzuto).
Pertanto, se da un lato è comprensibile che la reazione degli stranieri – consapevoli che nei loro confronti è stata avviata la procedura di espulsione coatta – si rivolga alla sola cosa possibile, distruggere gli ambienti in cui vivono (ed è anche questo il motivo per cui sono privi di arredo come gli armadi ove riporre gli oggetti personali, altrimenti usati come arieti), dall'altro non ci si deve dimenticare che per porre rimedio a ogni danneggiamento occorre avviare procedure e interventi che spesso richiedono lunghi tempi di esecuzione.
Rispetto alla criticità riguardante l'assenza di spazi idonei alle attività ricreative, si deve conciliare la condizione strutturale dei centri (che non è sempre possibile modificare agevolmente) con l'esigenza di assicurare a favore delle persone trattenute la possibilità di dedicarsi ad attività ricreative, aspetti affrontati anche nel richiamato regolamento unico del 2014.
Dall'esperienza pratica emerge tuttavia un altro interrogativo, non differente dai centri per richiedenti asilo, ove la libertà personale non è affatto impedita: le persone trattenute sono davvero interessate a essere impegnate in attività ricreative? E lo svolgimento delle stesse è conciliabile con le esigenze di sicurezza?
Occorre infatti considerare che gli stranieri trattenuti nei Cie/Cpr non sono sempre disposti a essere impegnati in attività ricreative e che ogni proposta del gestore viene mortificata dall'assenza di partecipazione. Inoltre, non essendo possibile introdurre oggetti che possano essere pericolosi per sé e per gli altri, alcune attività ludiche non possono essere proposte agli stranieri trattenuti (ad esempio, il gioco degli scacchi può rappresentare l'occasione per compiere atti di autolesionismo in caso di ingestione dei singoli pezzi).
Un'altra raccomandazione riguarda l'attività di informazione a favore degli stranieri trattenuti che sono apparsi, durante i colloqui con il Garante, poco consapevoli dei loro diritti e doveri.
Anche rispetto a tale esigenza – che in linea teorica dovrebbe assumere posizione di priorità rispetto alle altre – sarebbe forse utile considerare che le persone trattenute, oltre a essere informate dall'ente gestore, sono tutte assistite da un legale, di fiducia o nominato d'ufficio, al quale ognuno può chiedere tutti i chiarimenti necessari circa la propria sorte e che l'atteggiamento del “non so”, “non capisco perché sono qui” ecc., nella gran parte dei casi risponde a un atteggiamento vittimista anziché di vera mancata consapevolezza delle ragioni del trattenimento – l'irregolare presenza sul territorio - e del rischio di rimpatrio.

Le criticità negli hotspot
Per quel che riguarda gli hotspot il contesto è ancora più complesso. Difatti, la veste giuridica di tali centri è intervenuta solo con il Dl n. 13/2017, con il quale il legislatore, modificando il testo unico sull'immigrazione, ha previsto che lo straniero che fa ingresso irregolarmente (anche a seguito di soccorso in mare) è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza in appositi punti di crisi (hotspot) allestiti presso i centri esistenti o da istituire. È previsto inoltre che presso tali centri vengano effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico imposte dalle norme regolamentari europee e che nei confronti di coloro i quali si rifiutano di rilasciare le impronte si dispone il trattenimento nel Cie/Cpr.
Ma gli hotspot (al momento sono operativi a Lampedusa, Trapani, Pozzallo e Taranto) hanno cominciato a funzionare come tali sin dal 2015, anno in cui l'agenda Juncker ha imposto a Italia e Grecia l'adozione di misure in grado di garantire l'identificazione di tutti coloro - soprattutto le persone soccorse in mare – che tentano di entrare irregolarmente dai confini esterni dell'Ue.
A tal fine, tra le misure organizzative messe in piedi dal ministero dell'Interno con una celerità esemplare, sono state varate le procedure operative standard (Sop) dirette a regolare i rapporti tra i vari organismi istituzionali operativi all'interno delle strutture, per assicurare l'ordinato svolgimento di tutte le attività da parte di ciascun organismo operante nel centro.
Ciò che legittima il Garante a svolgere la propria attività nell'ambito di questi centri è senz'altro la circostanza che prima dell'identificazione e della verifica della posizione giuridica del migrante (richiedente asilo, possibile beneficiario di relocation, migrante economico), lo straniero non può allontanarsi dal centro ed è pertanto privato – sia pure per un tempo molto limitato – della libertà di circolazione.
A testimonianza della breve storia di tali strutture – e, quindi, della necessità di raffinare le procedure adottate - le criticità evidenziate dal Garante hanno un campo visivo ben più ampio di quelle sui Cie/Cpr: le critiche vanno dalla durata della privazione della libertà di circolazione (talvolta superiore a 48 ore), in assenza di vaglio giurisdizionale, all'esigenza di dare priorità al trasferimento di minori stranieri non accompagnati e donne in gravidanza, oltre che alla soddisfazione in via prioritaria dei bisogni dei migranti di essere rifocillati, lavati e rivestiti.
Anche per gli hotspot viene evidenziata l'esigenza di lavori di manutenzione ma soprattutto di potenziare le attività di coordinamento e il lavoro in team delle varie squadre operanti all'interno del centro, migliorare l'informazione ai migranti e consentire l'accesso dei mezzi di comunicazione.

Le difficoltà della gestione
Fermo restando la incontestabilità di quanto rilevato, il punto è: ci si rende conto delle difficoltà in cui versa l'intero apparato preposto all'accoglienza dei migranti dopo il loro soccorso in mare? Si riesce a comprendere quanto sia complessa la gestione di centinaia di migranti che giungono in un medesimo porto spesso contemporaneamente ad altrettanti arrivi negli altri porti del sud Italia? Si è consapevoli delle difficoltà di trasferimento dei migranti da Lampedusa e delle esigenze degli abitanti della piccola isola di non subire la pressione dovuta alla presenza di migranti che vengono sbarcati lì? Si può intuire quanto possa essere d'intralcio la presenza di estranei come i giornalisti nell'ambito delle operazioni all'interno degli hotspot durante uno sbarco?
Il Garante ha anche stigmatizzato la terminologia adottata dal ministero dell'Interno nei confronti delle persone in attesa di essere identificate che li qualificherebbe clandestini. Invero non risulta che nei dati resi pubblici dal Ministero venga adottata tale terminologia, mentre invece il suo utilizzo interno deve giustificarsi con l'uso di terminologia tecnica, connessa anche alla fattispecie di reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
Nel complesso, se da un lato la figura del Garante – non solo quello delle persone private della libertà personale - è per sua stessa natura quella di svolgere un'attività di monitoraggio nel settore di specifica competenza in posizione di assoluta indipendenza e a esclusiva tutela degli interessi rientranti nello specifico mandato, dall'altra appare sempre più evidente l'esigenza che tali figure debbano considerare le difficoltà in cui operano le pubbliche amministrazioni e contribuire a individuare anche soluzioni legislative che facilitino l'azione dell'apparato pubblico, sempre più oberato da adempimenti formali e sempre meno dotato di risorse umane in grado di assicurarne l'osservanza.
Soprattutto nel campo dell'immigrazione, la cessazione del regime di emergenza, che ha caratterizzato l'attività in questo settore sino al 2012, non consente più di assumere provvedimenti con la tempistica che la realtà richiederebbe. E ciò sia rispetto al reperimento delle strutture di accoglienza, sia rispetto al mantenimento delle stesse in condizioni di vivibilità. Inoltre, le esigenze di contenimento della spesa pubblica impediscono l'assunzione di personale, determinando una condizione sempre più compromessa per le Forze di Polizia e il personale civile preposto alla gestione del fenomeno migratorio.
Senza dimenticare la pressione esercitata dagli organismi europei, che richiedono celerità e prontezza di intervento.
In sostanza, la presentazione di un rapporto come quello che il Garante per le persone private della libertà personale dovrebbe poter testimoniare anche l'impegno che le istituzioni coinvolte assicurano per poter comunque conciliare le esigenze di sicurezza con quelle del pieno rispetto dei diritti e dignità dei migranti.

Il rapporto del Garante delle persone private della libertà personale

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