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«Sì» al Daspo su aggressioni per odio razziale anche in assenza di manifestazioni sportive

di Alberto Ceste

Il divieto di accesso alle manifestazioni sportive (Daspo), ai sensi del combinato disposto degli articoli 2, commi 2 e 3, del Dl 26 aprile 1993 n. 122, convertito con modificazioni in legge 25 giugno 1993 n. 205, e 6, comma 1, della legge 13 dicembre 1989 n. 401, può essere legittimamente disposto anche nei confronti del cittadino italiano che sia stato denunciato per lesioni personali aggravate commesse ai danni di cittadini stranieri per mero odio razziale, anche se non in occasione o a causa di una manifestazione sportiva.
La misura di prevenzione in esame, infatti, mira proprio ad evitare che soggetti coinvolti in indagini per reati di particolare allarme sociale, quale quello in esame, possano accedere alle manifestazioni sportive in cui simili condotte potrebbero porre in serio pericolo l'ordine e l'incolumità pubblica.
Lo ha deciso il Tar Lazio - Roma, Sezione I ter, sentenza n. 4085/2019.

La questione
Il ricorrente, cittadino italiano, è stato denunciato per il reato di lesioni personali aggravate, perché in concorso con altri connazionali ha aggredito fisicamente e senza motivazione alcuna due cittadini stranieri (uno dei quali ha riportato lesioni per 30 giorni salvo complicazioni) che stavano transitando sulla medesima strada, dopo aver profferito nei loro riguardi frasi connotate da un profondo odio razziale, senza altra motivazione.
Nell'immediatezza dei fatti l'aggressore è stato compiutamente identificato dal personale di Polizia intervenuto come appartenente al gruppo di circa dieci persone di cui si è detto, ed al quale il Questore ha poi notificato Daspo individuali.

Il ricorso
Soltanto uno dei destinatari della misura di prevenzione ha ricorso per l'annullamento della stessa, deducendo, fra l'altro, la sua pretesa illegittimità dal momento che sarebbe stata emessa al di fuori delle ipotesi di comportamenti violenti o pericolosi per la sicurezza pubblica posti in essere in occasione o a causa di una manifestazione sportiva.

La sentenza
Il Collegio ha respinto il ricorso, rilevando come il Daspo sottoposto alla sua valutazione è stato adottato sulla base del disposto dell'articolo 2, commi 2 e 3, del Dl n. 122/1993, che estende l'applicazione dell'articolo 6, comma 1, della legge 13 dicembre 1989 n. 401, «proprio alle ipotesi di reati di particolare allarme sociale in quanto caratterizzati dalla manifestazione di odio razziale».
La previsione normativa risponde quindi esattamente all'esigenza di evitare che soggetti come il ricorrente, indagati per comportamenti criminosi caratterizzati da episodi di violenza immotivati, forti ed occasionati soltanto da un intento discriminatorio, possano accedere agli impianti ove si svolgono manifestazioni sportive.
Luoghi, questi, «in cui condotte analoghe potrebbero comportare una condizione di particolare rischio per l'ordine e l'incolumità pubblica, come testimoniato dal fatto che in più occasioni si sono verificate aggressioni o minacce correlate ad insulti di tipo razzista».

Conclusioni
La sentenza in rassegna ha quindi ritenuto ragionevole l'applicazione del Daspo inflitto per odio razziale anche se non era in corso alcuna manifestazione sportiva, conformemente a quanto già ritenuto dallo stesso Tar Lazio – Roma, Sezione I ter, con la sentenza 24 dicembre 2018 n. 12516.
La circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio razziale di cui all'articolo 2, comma 3, del Dl n. 122/1993 esige invero, non solo sotto il profilo letterale, ma anche teleologicamente, una protezione rafforzata.
Non a caso, la giurisprudenza prevalente che si è pronunciata sulla sua configurabilità ha più volte ribadito come essa è riscontrabile, non solo quando l'azione per le sue caratteristiche intrinseche e per il contesto in cui si colloca risulti diretta intenzionalmente a dar luogo al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, «ma anche quando essa si rapporti (…) ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la motivazione soggettiva dell'agente» (Corte di cassazione, Sezione V penale, sentenza 28 novembre 2017 n. 2630).

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