Amministratori

Coronavirus/1 - Nel nuovo Dl salta la verifica sulle ordinanze locali

di Gianni Trovati

Il tentativo di mettere ordine alla maionese impazzita dei rapporti fra Stato ed enti locali nella gestione dell’emergenza sanitaria ha complicato parecchio la nascita del nuovo decreto legge quadro sulle misure di contenimento del contagio. Al punto che i tecnici di Palazzo Chigi hanno dovuto lavorare al testo per molte ore dopo la chiusura del consiglio dei ministri e la conferenza stampa in cui il premier Conte ha illustrato le nuove misure. E il lavoro è sfociato in una norma di poche righe, che butta al macero il meccanismo complesso finito nel pomeriggio sul tavolo del consiglio dei ministri. «Collaboriamo con le Regioni e questa modalità sta dando risultati», ha sostenuto Conte parlando in videoconferenza con i giornalisti: «un intervento autoritativo dello Stato centrale non è pensabile - ha aggiunto -, anche perché le Regioni hanno un patrimonio informativo che non possiamo avere a livello centrale».

Il principio è chiaro. Ma la sua traduzione pratica si è rivelata decisamente è più complicata. Al punto che, alla fine, ci si è dovuti accontentare di una norma di principio che permette alle Regioni di emettere ordinanze solo «nell’ambito delle attività di loro competenza», e ai sindaci torna a vietare di andare con le loro decisioni «in contrasto con le misure statali». Nulla di diverso, in verità, da quanto già previsto dall’ordinamento.

Perché il meccanismo individuato dalle prime bozze del decreto sarebbe stato decisamente più complesso. E prevedeva la verifica statale sulle ordinanze territoriali che, una volta superato l’esame, sarebbero state da confermare tramite decreto di Palazzo Chigi. A pena di decadenza.

In pratica, anche le Regioni avrebbero dovuto pescare dal ventaglio delle 29 misure di contenimento individuate dal nuovo decreto legge. La decisione locale avrebbe avuto una validità a tempo, sette giorni, e sarebbe stata comunicata sotto forma di proposta a Palazzo Chigi entro 24 ore dall’adozione. Entro i sette giorni, la presidenza del Consiglio avrebbe dovuto confermare le misure inserendole in un Dpcm. In caso di mancata conferma, l’ordinanza locale sarebbe decaduta da sola scaduto il termine dei sette giorni.

Come si vede, un meccanismo del genere avrebbe rischiato di inciampare parecchio sul piano pratico e su quello ordinamentale, perché le competenze delle Regioni in materia sanitaria sono forti e il terreno delle decisioni prese per la tutela della «salute pubblica» è delicato. Questo tentativo di armonizzazione è arrivato inoltre in una fase in cui i rapporti fra Roma e i presidenti di Regione sono concitati per una miscela di fattori che vanno dalla tensione per l’emergenza alla concorrenza politica, in particolare nel Nord a trazione leghista dove il quadro sanitario è più complicato. Come mostrano bene le cronache dell’ultimo fine settimana che hanno visto l’accelerazione delle ordinanze di Piemonte e Lombardia e Palazzo Chigi in rincorsa con le comunicazioni a tarda sera del premier Conte e il testo del decreto di Palazzo Chigi arrivato solo 24 ore dopo. Ad arricchire ulteriormente il quadro ci sono poi i sindaci. Con loro in realtà i rapporti del governo sono nel complesso più semplici. Il presidente dell’Anci Antonio Decaro, anzi, era stato il primo a chiedere la sospensione del potere di ordinanza dei sindaci per evitare il caos (richiesta accolta dal governo qualche settimana fa con una prima norma dalla scarsa fortuna applicativa) e ieri è stato tra i primi ad applaudire l’arrivo di sanzioni più severe per chi viola le misure di distanziamento sociale.

Ma anche su questo aspetto il mondo dei Comuni è variegato, come dimostra per esempio il caos sullo stretto di Messina con il sindaco in prima fila nel tentativo di fermare gli arrivi dalla Calabria. Il decreto esaminato ieri dal governo pensa anche a loro, ma si limita a

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©