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Interdittiva antimafia legittima anche se i fatti risalgono a più di vent'anni fa

di Amedeo Di Filippo

Il mero decorso del tempo non implica la perdita del requisito dell'attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né comporta l'inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento. Lo afferma la terza sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 2/2020.

I fatti risalenti
Il caso riguarda una interdittiva antimafia emersa nell'ambito di un procedimento penale. La società ha opposto ricorso, accolto dal Tar Calabria per carenza di istruttoria, la cui sentenza è stata appellata per asseriti errori nella valutazione delle circostanze. Il Consiglio di Stato ha prima accolto l'istanza cautelare di sospensione, ora con la sentenza n. 2/2020 ha accolto l'appello, evidenziando il collegamento diretto con la locale consorteria mafiosa.
I giudici della terza sezione hanno evidenziato in particolare la posizione del legale rappresentante della società, vittima di un'estorsione alla quale avrebbe ceduto. A nulla vale che l'episodio risalga al 1998 se, come in questo caso, i fatti compongono un quadro indiziario complessivo dal quale si può un condizionamento da parte della criminalità organizzata. Il mero decorso del tempo, di per sé, non implica la perdita del requisito dell'attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l'inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, occorrendo piuttosto che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l'impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d'ombra della mafiosità.

I criteri
La sentenza n. 2 è interessante anche perché propone una specie di breviario dell'informazione antimafia, provvedimento che implica una valutazione discrezionale da parte dell'autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa. Questa deve essere valutata secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell'accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma che implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere «più probabile che non» il pericolo di infiltrazione mafiosa. Infatti, l'articolo 84, comma 3, del Dlgs 159/2011 riconosce quale elemento fondante l'informazione antimafia la sussistenza di «eventuali tentativi» di infiltrazione mafiosa «tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate». Categorie che delineano una fattispecie di pericolo propria del diritto della prevenzione, finalizzato a prevenire un evento non necessariamente attuale ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori. Non si tratta però di una «norma in bianco», affermano i giudici, né di una delega all'arbitrio dell'autorità amministrativa, imprevedibile per il cittadino e insindacabile per il giudice, in quanto il prefetto valuta elementi riscontrati in concreto esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo. Solo di fronte a un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio deve arrestare.

Le garanzie
Tutto il processo si svolge sotto l'egida del giudice amministrativo, chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario posto a base della valutazione prefettizia, con pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo e con la possibilità di sindacare l'esistenza o meno dei fatti – che devono essere «gravi, precisi e concordanti» – e di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l'autorità amministrativa ne trae «secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame». Un sindacato che secondo la terza sezione scongiura il rischio che la valutazione del prefetto divenga una «pena del sospetto» e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l'esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio.
Negare quindi in radice che il prefetto possa valutare elementi "atipici" dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia.

La sentenza del Consiglio di Stato n. 2/2020

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