Personale

Legittimo il licenziamento del dipendente che prolunga la pausa pranzo

di Carmelo Battaglia e Domenico D'Agostino

Con sentenza n. 21628/2019, la Corte di Cassazione civile, Sezione Lavoro, ha precisato come la condotta del lavoratore che, pur risultando regolarmente in servizio, scelga di intrattenersi a pranzo oltre l'orario consentito sia più grave dell'assenza ingiustificata, legittimando il licenziamento per giusta causa.
La vicenda riguarda un dipendente di Poste Italiane S.p.A. licenziato per essersi intrattenuto, in due occasioni consecutive ed insieme ad altri colleghi, oltre l'orario di pranzo previsto, trascurando le consegne e lasciando incustodita sia la posta assegnatagli che il mezzo in dotazione.
Il Tribunale di Cassino ha rigettato l'impugnativa, proposta dal dipendente, del licenziamento intimato dal datore di lavoro e la Corte d'Appello di Roma ha confermato la decisione del giudice di prime cure, affermando che la condotta era stata posta in essere con chiara consapevolezza.
Il dipendente ha, pertanto, presentato ricorso per Cassazione, lamentando che la Corte territoriale ha erroneamente considerata integrata la giusta causa di licenziamento, ex art. 2119 Cc, trascurando la sanzione conservativa prevista dalla contrattazione collettiva, in virtù della quale si sarebbe dovuta applicare la sospensione dal servizio fino a dieci giorni del dipendente «per abituale negligenza oppure per abituale inosservanza di leggi o regolamenti o degli obblighi di servizio nell'adempimento della prestazione di lavoro» (art. 54, comma 4, lett. j, Ccnl Poste Italiane Spa). Altresì, il ricorrente ha eccepito di essersi reso responsabile di un inadempimento parziale, di gravità non tale da giustificare il licenziamento senza preavviso.
Sul primo punto, la Cassazione ha ribadito i principi già espressi dalla medesima Corte (v. Cass. n. 12365/2019; cfr. Cass. n. 14064, 14247, 14248, 14500 del 2019), in base ai quali il licenziamento può essere dichiarato illegittimo, con conseguente reintegrazione ai sensi dell'art. 18, comma 4, Legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), solo nel caso in cui il fatto accertato e contestato sia espressamente previsto da una fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta come punibile con sanzione conservativa.
In virtù di detti principi, nel caso di specie, le valutazioni della Corte territoriale hanno escluso la riconducibilità degli addebiti alla più generale previsione di abituale negligenza o inosservanza degli obblighi di servizio, punibili con sanzione conservativa e, contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, la Corte d'Appello ha ritenuto la condotta incriminata più grave dell'assenza ingiustificata, individuando da parte del dipendente un "elemento intenzionale particolarmente intenso", concretatosi nella volontà di non completare il servizio e di prolungare la pausa pranzo per un lasso di tempo molto più ampio del consentito. Secondo gli ermellini, la Corte territoriale, conformandosi alla giurisprudenza della Cassazione, ha correttamente graduato le infrazioni disciplinari tipizzate nel Ccnl di settore ed ha considerato che i fatti oggetto di causa non avevano pari disvalore disciplinare rispetto a quelli ritenuti punibili con sanzione conservativa: il comportamento del lavoratore che non si reca a lavoro, infatti, è immediatamente percepibile dal datore di lavoro, mentre quello del dipendente che, pur risultando in servizio, non adempie alla prestazione, basandosi su un'apparenza di regolarità, sfugge al controllo datoriale diretto.
Con riferimento all'osservazione che si sarebbe trattato di un inadempimento parziale, non tanto grave da impedire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, la Suprema Corte ha, anzitutto, precisato che la valutazione del giudice di merito è sindacabile in Cassazione solo in presenza di una denuncia specifica di non coerenza dello stesso giudizio e non sulla base di una censura generica e meramente contrappositiva (cfr. Cass. n. 985/2017, 5095/2011 e 9266/2005). Pertanto, la Suprema Corte può intervenire nei limiti della valutazione della ragionevolezza delle scelte operate dal giudice del merito e il sindacato sulla ragionevolezza è relativo solo alla sussunzione dell'ipotesi specifica nella norma generale (SS.UU. n. 23287/2010).
Essendo molteplici gli elementi da valutare ai fini dell'integrazione della giusta causa di recesso, nel sindacato di legittimità occorre considerare la rilevanza attribuita ai dati fattuali dal giudice del merito, al fine di verificare la coerenza e la ragionevolezza della sussunzione nell'ambito della clausola generale; pertanto, per ottenere la cassazione della sentenza sotto il profilo del vizio di sussunzione, il ricorrente non può limitarsi ad invocare un diverso peso specifico degli elementi fattuali, bensì deve denunciare che la loro valutazione e combinazione, così come operata dal giudice del merito, non consente la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento (cfr. Cass. n. 18715/2016). Altresì, la circostanza che il ricorrente sostenga che, in base al proprio giudizio, il fatto addebitato non costituisca giusta causa di licenziamento, criticando il diverso apprezzamento dei giudici in ordine alla proporzionalità della sanzione, esula dal controllo della Cassazione, la quale non può sostituirsi ai giudici del merito, per di più in una ipotesi di cd. "doppia conforme".
In conclusione, nel caso specie, secondo le valutazioni degli ermellini, la Corte territoriale ha basato le proprie valutazioni su un percorso argomentativo corretto nel metodo, senza sconfinare in un risultato irragionevole, come tale suscettibile di sindacato di legittimità.

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