Appalti

Partecipate, la Corte dei conti forza la mano sul controllo nelle «miste» nate da gara a doppio oggetto

di Stefano Pozzoli

Il tema del controllo nelle società pubbliche continua a essere caldo ed è ovvio che sia così perché indubbiamente le società sono poco propense a rientrare in un sistema di vincoli che paiono difficilmente comprensibili e figli di un approccio semplicistico, ovvero quello di assimilare, tout court, le società pubbliche alle pubbliche amministrazioni. Da ciò, infatti, consegue la pratica diffusa del cosiddetto gold plating, che consiste nell'imporre alle società a controllo pubblico una serie costi aggiuntivi rispetto a quelli previsti dal legislatore comunitario, che non a caso ha da tempo stigmatizzato questa prassi (Commissione europea, Smart regulation in the European Union, COM(2010) 543 final, Bruxelles, 8 ottobre 2010) qualificandola come inopportuna, anche in ragione del fatto che i costi pesano inevitabilmente sui cittadini.

È altresì chiaro che il socio pubblico, anche se consapevole di ciò, dovrebbe quanto meno ambire al controllo. Altrimenti diventa difficile, se non impossibile, motivare perché la detenzione delle azioni sia strettamente necessaria per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, come richiede l'articolo 4 del testo unico.
A che cosa serve una presenza dei Comuni in una società se non sono in grado di determinarne, o quanto meno condizionarne, le scelte?

Da questo punto di vista la delibera n. 11/2019 delle Sezioni riunite della Corte dei conti in sede di controllo, prevedendo una sorta di inversione dell'onere della prova sul controllo societario, propone una soluzione semplice e a giudizio di chi scrive efficace. Una lettura che non è priva di forzature sul piano della interpretazione giuridica ma che ha il pregio di essere pragmatica: se la maggioranza è pubblica - dice in sostanza la Corte - io ritengo che tu sia a controllo pubblico, salvo che non mi si dimostri il contrario grazie a un idoneo patto di sindacato. Un invito, in sostanza, a razionalizzare la propria scelta, ovvero a mettere in chiaro le cose e che personalmente si condivide, anche perché restituisce al consiglio comunale la responsabilità della scelta, visto che i patti di sindacato sono di competenza consiliare.

Ci lascia perplessi, al contrario, la traduzione di questo indirizzo che viene effettuata dalla Sezione di controllo per l'Umbria della Corte dei conti nella delibera n. 77/2019, dove, per quanto riguarda una società idrica costituita con gara a doppio oggetto, si chiede ai Comuni di andare necessariamente nella direzione del controllo pubblico: «in presenza di partecipazioni pubbliche maggioritarie, in capo ai Comuni sussiste l'obbligo di stipulare un patto parasociale ovvero favorire altre forme di aggregazione e coordinamento tra gli enti (…) che consentano ai Comuni soci di esercitare il controllo pubblico», addirittura paventando «un profilo di responsabilità amministrativa».

Sinceramente non ci pare proprio che si possa arrivare a tanto. È giusto, come affermano le Sezioni riunite, richiedere una formalizzazione dei rapporti, portando tutti ad assumersi chiaramente le proprie responsabilità. Però, occorre fermarsi qui, riconoscendo agli azionisti l'onore e onere della decisione.

Non dobbiamo dimenticarci che le società miste nate da una gara a doppio oggetto sono il risultato della convinzione della stazione appaltante (Comune o ambito che sia) di non essere in grado di gestire il servizio e di preferire, pertanto, affidarsi ad un partner privato con competenza industriali. Sarebbe paradossale, in questi casi, affidare le leve vere della gestione al socio privato e assumersi al tempo stesso le prerogative e le responsabilità del controllo. E, comunque, lo decidano i soci.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©