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Consulta, il cognome comune nell’unione civile non modifica la scheda anagrafica

di Francesco Machina Grifeo

Il cognome comune assunto nel corso dell'unione civile non modifica la scheda anagrafica (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 10 ottobre). La conferma arriva dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 212 di ieri, che ribadisce la legittimità del Dlgs 5/2017 che ha «adeguato» l'ordinamento dello stato civile a seguito della legge 76/2016 (sulla regolamentazione delle unioni civili). Per la Consulta dunque sono in parte inammissibili (articolo 22 della Costituzione) e in parte infondate (articoli 2, 3, 11, 76 e 117 della Costituzione, articolo 8 della Cedu) le questioni poste dal Tribunale di Ravenna nel novembre 2017. Secondo il giudice rimettente la norma negando il diritto delle parti di «assumere a tutti gli effetti un cognome comune» violava i diritti fondamentali della persona. Non solo, disponendo retroattivamente la modifica di una situazione anagrafica legittimamente costituita prima dell'entrata in vigore del decreto, violava il diritto al nome, all'identità e dignità personale, nonché alla vita privata e familiare.

La Consulta in primo luogo rileva che oggetto della delega era l'«adeguamento delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni» alle previsioni della legge sulle unioni civili, con salvezza dell'articolo 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome comune. La disposizione «fornisce un'indicazione quanto mai significativa circa la necessità di modifiche anagrafiche, laddove espressamente delimita la durata del cognome comune a quella dell'unione civile».
Secondo il comma 10 in esame, infatti, la scelta del cognome è operata «per la durata dell'unione». Dallo scioglimento dell'unione civile, anche in caso di morte di una delle parti, infatti, discende la perdita automatica del cognome comune. Dunque proprio tale delimitazione temporale «ha guidato la scelta operata dal legislatore delegato». Infatti, come rilevato dalla relazione illustrativa, «una vera e propria variazione anagrafica del cognome della parte dell'unione civile avrebbe effetto solo per la durata dell'unione». Tale rilievo, prosegue la Corte, «sottintende la contraddittorietà e l'irragionevolezza insite nell'attribuire alla scelta compiuta dalle parti dell'unione civile un effetto, la variazione del cognome anagrafico, che è nell'ordinamento tendenzialmente definitivo e irreversibile, mentre nella specie sarebbe temporaneo e limitato alla durata dell'unione».

Inoltre, prosegue la Corte: «Che il diritto al nome, quale elemento costitutivo dell'identità personale, debba concretizzarsi nel cognome comune, rendendo così doverosa la modifica anagrafica di quello originario, non discende, infatti, né dalle norme della nostra Costituzione, né da quelle interposte che essa richiama». Senza considerare che in caso di separazione «la ipotizzata valenza anagrafica del cognome comune sarebbe suscettibile di produrre effetti pregiudizievoli sulla sfera personale e giuridica dei figli di quella delle parti che avesse assunto tale cognome in sostituzione del proprio». Del resto, anche il cognome d'uso assunto dalla moglie a seguito di matrimonio «non comporta alcuna variazione anagrafica del cognome originario, che rimane immodificato». In linea di coerenza con tale previsione, si prevede che la scheda anagrafica della parte dell'unione civile debba indicare il nome ed il cognome dell'altra parte dell'unione (comma 1 dell'art. 20), senza che ciò comporti una modifica del proprio cognome anagrafico (comma 3-bis). In defintiva, conclude la sentenza, «la natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l'unione civile e la facoltà di stabilirne la collocazione accanto a quello originario – anche in mancanza di modifiche della scheda anagrafica – costituiscono garanzia adeguata dell'identità della coppia unita civilmente e della sua visibilità nella sfera delle relazioni sociali in cui essa si trova ad esistere».

La sentenza della Corte costituzionale n. 212/2018

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